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Fischia il vento, Secchia (Alb)    Torna alle categorie

Donatella ALFONSO, Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli, Roma, Castelvecchi ed., 2014, 16,50 euro.

Donatella Alfonso, giornalista di “Repubblica”, dopo gli studi sul borgo operaio di Cornigliano (Genova) e sul ’68 genovese, continua la ricerca sul mondo partigiano, presentando una figura, molto nota nella provincia di Imperia, ma, purtroppo, poco conosciuta a livello nazionale, quella di Filippo Cascione.

La vita e la personalità di Cascione vengono ricostruite nella loro interezza e singolarità, andando al di là dei due fatti per cui è, almeno localmente, famoso: l’essere stato comandante partigiano, il primo garibaldino nell’imperiese e l’autore del testo del famoso Fischia il vento, certo il più significativo canto resistenziale (la popolarità di Bella ciao è di gran lunga successiva).

Cascione nasce a porto Maurizio il 2 maggio 1918. E’, dopo poco, orfano di padre che cade negli ultimi mesi della Grande guerra. Intenso, in tutto il corso della breve vita, il rapporto con la madre, Maria Baiardo, testimoniato dalle lettere, conservate all’Istituto storico della resistenza di Imperia, Lei è maestra, antifascista e come tale costretta a continui trasferimenti, a sedi lontane e disagiate.

Ginnasio e liceo ad Imperia, dove è amico di Alessandro Natta che lo definirà Bello come un dio greco, università (medicina) a Genova ed a Bologna, dove si laurea nel 1943 e si iscrive al partito comunista (era di molti universitari, invece, la scelta liberal – socialista).

Torna ad Imperia, dove inizia la professione di medico, ricordato in tante testimonianze come medico dei poveri, generoso ed altruista. E’ popolare anche come giocatore di pallanuoto. La squadra locale è, per merito suo, promossa alla massima serie e portata ai vertici. Le testimonianze, certo un po’ ampliate dal ricordo, dicono che quando tirava in porta usciva dall’acqua sino al ginocchio.

Sono lui e la madre a guidare le manifestazioni, ad Imperia, per la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943. Pagheranno, sotto il governo Badoglio, con il carcere, sin quasi all’8 settembre successivo.

All’armistizio e alla conseguente occupazione tedesca, u megu (in dialetto, il medico), è il primo garibaldino ed organizza una prima formazione partigiana a Diano Castello.

Le azioni partigiane si legano alla attività di medico verso la popolazione. Ad una madre che gli chiede quanto gli debba per averle curato il figlio, risponde chiedendo cibo per la brigata che muore di fame.

Lo perde la sua umanità verso i prigionieri. Quando la sua brigata cattura due “repubblichini” e li condanna a morte è lui ad opporsi: Ho studiato venti anni per salvare le vite, non per uccidere. Cura uno dei due, il tenente Dogliotti, convinto che la scelta fascista non sia definitiva: Non è colpa di Dogliotti se non ha avuto una madre che lo abbia saputo educare alla libertà.

Sarà proprio il tenente a tradirlo, fuggendo, a metà gennaio 1944 e guidando le Brigate nere contro la banda partigiana.

Anche la morte è colma di eroismo e contribuisce al mito. All’inizio di uno scontro a fuoco, fa mettere in salvo i suoi e si attarda per salvare uno zaino con medicinali e documenti. Viene colpito. Due uomini tornano per portarlo in salvo, ma i nemici sono troppi e l’azione fallisce. Uno dei due è catturato e torturato. Per salvarlo, Cascione, gravemente ferito, esce allo scoperto, grida: Il capo sono io e viene crivellato di colpi. Si dice che dal luogo dell’uccisione, ad Alto (Cuneo), si veda il mare.

La fama ed il mito, che percorrono diverse generazioni, sono legati anche alla composizione del testo di Fischia il vento, sulla musica della russa (non a caso) Katjuscia.

L’autrice ripercorre le vicende della composizione, le diverse stesure, le correzioni apportate dalla madre alla prima versione Soffia il vento… eppur bisogna ardir, come pure le correzioni “politiche”, negli anni, tese a sostituire l’espressione rossa bandiera. Propone la versione originale, per alcuni aspetti sorprendente e diversa da quella “vulgata”.

Al partigiano Ivan, l’autore dice che la banda non ha una bandiera e che il canto può sostituirla e Fenoglio, ne Il partigiano Johnny, ne tesserà il maggior elogio, dicendo che l’inno fa impazzire i fascisti, tanto che, se lo cantasse un bambino, gli sparerebbero.

E’ la madre ad impegnarsi per anni, ricorrendo anche alle vie legali, perché Fischia il vento sia attribuita al figlio, rifiutando la logica della paternità e  della proprietà collettive.

Cascione è oggi citato nei centri sociali giovanili, ricordato dall’ANPI. Non è mancato l’accostamento – gemellaggio a Guevara (entrambi partigiani e medici).

L’elogio più significativo è, comunque, quello del grande Italo Calvino: Il tuo nome è leggenda. Molti furono quelli che, infiammati dal tuo esempio, s’arruolarono sotto la tua bandiera.

Sergio Dalmasso

 

Marco ALBELTARO, Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Bari, Laterza, 2014, pag. 235, euro 22.

Marco Albeltaro, giovane studioso piemontese, attento alla storia del movimento operaio e del giornalismo, autore di La parentesi antifascista, giornali e giornalisti a Torino (1945 – 1948) e, con Alessandro Hobel, di Novant’anni dopo Livorno. Il PCI nella storia d’Italia, dedica a Pietro Secchia una biografia, attenta e documentata, che costituisce, sul comunista biellese, il lavoro più storiograficamente attendibile, colmo di ovvie valenze politiche, mai, però, piegate al dibattito contingente o, ad usi, a quarant’anni dalla morte, almeno discutibili.

E’ l’autore, nella breve prefazione, a parlare di una storia che sembra lontana anni luce, in particolare per la sua generazione (di chi, cioè, ha da poco superato i trent’anni).

Questa generazione non ha conosciuto alcuno dei sogni che hanno riempito la vita ai rivoluzionari di professione novecenteschi ed è priva delle coordinate politiche, sociali, esistenziali, antropologichedel secolo che abbiamo alle spalle. Nel breve lasso di tempo che va dal 1980 ai primi ’90, l’Italia vede non solamente messe in discussione alcune categorie fondamentali (l’antifascismo, la Resistenza…), ma scomparire le formazioni politiche ed i riferimenti ideali su cui si era costruita.

Questa situazione generazionale, se per molti aspetti è desolante, costituisce, però, un privilegio sul piano conoscitivo, perché consente di riflettere su quella stagione e sulle figure che l’hanno attraversata…  senza la necessità politica di ascrivere il proprio lavoro storiografico ad un campo (pg. VI)

In effetti, la figura di Secchia è tutta interna alla parabola del PCI, la sua biografia è quella di uomo di partito sin dalla giovanissima età.

Nato nel 1903 ad Occhieppo superiore, nel biellese, si iscrive giovanissimo alla gioventù socialista. La sua è una netta scelta di classe, alla centralità della quale sarà legato per l’intera esistenza. Così nel 1921, a poco più di 17 anni, è quasi naturale l’adesione al Partito comunista che gli permette di liberarsi dalla “zavorra riformista” cui addebita la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche, avvenuta pochi mesi prima.

Dal 1928 è tra i principali dirigenti del partito clandestino ed in esilio, con i giovani tra i maggiori fautori della “svolta”, nella convinzione della riapertura di una fase rivoluzionaria e della necessità, per i militanti, del rientro in Italia per ritessere la rete organizzativa.

Arrestato nel 1931, è condannato a 17 anni e 9 mesi; sconta in carcere 5 anni, sette al confino (Ponza e Ventotene), viene liberato nell’agosto 1943 ed entra immediatamente nell’organizzazione della Resistenza, facendo parte del comando generale delle Brigate Garibaldi.

L’innesto della matrice politica nel naturale spontaneismo dell’inizio della guerra partigiana è il “capolavoro” di Secchia, che tenta di far convivere una lettura del partito come avanguardia con la dimensione di massa che esso sta acquisendo (si veda il suo Organizzazione e spontaneità del marzo 1944).

Al termine del conflitto, entra nella segreteria del PCI con la responsabilità dell’organizzazione, pur in un mondo politico romano che non ama, continuando a ritenere di maggior importanza l’attività di un partito legato alla classe rispetto alle mediazioni del parlamento e del governo. Nel 1948 è, con Luigi Longo, vicesegretario nazionale.

Sono gli anni della rottura dei governi di unità nazionale nel clima della guerra fredda, della sconfitta elettorale del 1948, dell’opposizione politica e sociale. In questo quadro di contrapposizione frontale, il partito raggiunge i migliori risultati organizzativi per numero di iscritti, federazione giovanile, radicamento delle sezioni (una sezione per ogni campanile), diffusione e feste dell’ “Unità”, sviluppo di organizzazioni “collaterali”, legame con la CGIL.

E’ Secchia ad essere il dirigente più vicino all’URSS ed il primo a conoscere, dopo la morte di Stalin, anticipazioni sulla “svolta” successiva

Nel 1954, ”l’incidente”: Giulio Seniga, suo segretario, scompare improvvisamente con documenti riservati e una cifra altissima. Lo scandalo travolge il dirigente comunista che perde il ruolo nazionale. Da allora sarà segretario regionale della Lombardia, quindi responsabile dell’attività editoriale del partito ed in seguito vicepresidente del Senato.

La stessa attività storiografica, soprattutto di denuncia del tradimento della Resistenza e di recupero di parti della storia del partito, con forte contenuto classista, è conseguenza dell’emarginazione politica, in uno stato d’animo di solitudine e di risentimento.

La medesima morte, nel 1973, a meno di 70 anni, contribuisce alla sua leggenda. Non mancano e non sono risolti neppure oggi, i sospetti circa un avvelenamento da parte della CIA (la malattia insorge dopo un viaggio nel Cile di Allende, pochi mesi prima del golpe).

Molte le questioni critiche e controverse che il testo di Albeltaro fa riemergere e che lo spazio di una scheda permette solamente di elencare.

-          La posizione dei giovani nel dibattito interno, a fine anni ’20. La scelta di tutti in Italia viene rivendicata come base per la strutturazione del PCI e strumento per il successivo passaggio a partito di massa. Manca, però, una nota critica verso l’errore nell’analisi di fase (situazione rivoluzionaria) e nell’atteggiamento settario verso le altre forze antifasciste (il socialfascismo) che tanto peserà in Germania. Resta da studiare l’oggettiva critica verso la scelta gramsciana del congresso di Lione, sottintesa in queste posizioni (ne fanno cenno solamente i vecchi studi, sul centro socialista interno, di Stefano Merli).

-          La posizione classista e alternativa alla mediazione romana, nel corso della resistenza. E’ nota l’accettazione, da parte di Secchia, della svolta di Salerno, ma altrettanto implicita è la sua critica agli sbocchi della guerra partigiana e al modo in cui la forza del vento del nord viene usata. Il rapporto fra i centri del partito a Roma e a Milano, è per lo meno, conflittuale. Altrettanto discussa la sua posizione verso le formazioni critiche verso il PCI e tese a costituirne una alternativa da sinistra . L’infelice articolo, così lo definisce Claudio Pavone, Il sinistrismo maschera della Gestapo (dicembre 1943) ne è chiara espressione.

-          Il rapporto di Secchia con l’URSS e con Stalin ripropone la discussione sulle sue opzioni come semplice variante della impostazione togliattiana o come reale alternativa, per linee interne, ad essa. E’ evidente come il caso Seniga sia l’occasione per allontanare l’ancora giovane (50 anni) vicesegretario da ogni incarico centrale e per sostituirlo, all’organizzazione, con Giorgio Amendola, scelta che comporta un netto cambiamento nel quadro intermedio del partito, con forte cambio generazionale.

-          Il 1968 e il rapporto con l’editore Feltrinelli. Può sembrare paradossale la breve collaborazione fra l’ex resistente, legato ad una visione “di campo” della realtà internazionale e l’editore terzomondista che proviene dall’alta società. Alla base, la speranza nelle nuove tensioni giovanili che paiono far tornare di attualità spinte rivoluzionarie, ma anche il timore per possibili risposte reazionarie e golpiste.

La stessa opera storiografica da I comunisti e l’insurrezione alla Storia della Resistenza, dall’ Enciclopedia dell’antifascismo all’annale dell’Istituto Feltrinelli sul PCI durante il fascismo non può essere slegata da finalità espressamente politiche, dalla costruzione di una propria immagine, dal risentimento verso l’emarginazione subita, non solamente da parte di Togliatti, ma anche da Luigi Longo, divenuto segretario nel 1964.

Il suo testamento sembra condensarsi nella lettera al figlio Vladimiro, pochi mesi prima della morte, con l’invito a non consegnare al partito tutto l’archivio.

Il vecchio rivoluzionario è convinto che:

di lui si parlerà ancora, delle lotte da lui combattute, dell’azione da lui compiuta, delle sue posizioni rivoluzionarie, del contributo che egli ha dato alla fondazione del PCI ed a fare di questo un grande partito. Diverso certo da quello che ne avete fatto voi in questi anni… Sono convinto che se le mie posizioni fossero state seguite, noi non ci troveremmo nelle condizioni di oggi. Non dico che si sarebbe potuto fare la rivoluzione. Ma certo si poteva fare molto di più, mantenendo il carattere rivoluzionario del partito… Ciò che io vado facendo… servirà a dimostrare che… avendo lottato contro il capitalismo, per la rivoluzione socialista, non ho mancato di lottare anche in seno al mio partito, per sostenere e fare trionfare certe posizioni contro il revisionismo e contro l’opportunismo di ogni sorta.

L’importante studio di Albeltaro non dà risposta, ma offre tutti gli strumenti e gli stimoli per una analisi ed una discussione tutt’altro che accademiche.

Sergio Dalmasso